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Salmo 107:4-5: Smarriti e ritrovati (1)

 Salmo 107:4-5: Smarriti e ritrovati (1) Il GPS di Dio nel deserto della vita  Immaginate una carovana smarrita e affamata nel buio del deserto, dove la disperazione opprime ogni cuore. Circondata solo da sabbia e da un’oscurità impenetrabile, la sua unica speranza di sopravvivenza risiede nel ritrovare la pista.  La fame e la sete li consuma, l’anima si affievolisce e la paura impedisce persino di dormire. La notte si fa sempre più cupa e l’umidità penetra le tende, gelando i viaggiatori.  Questa doveva essere la situazione dei viaggiatori descritti nel Salmo 107:4-7:  “Essi vagavano nel deserto per vie desolate; non trovavano città dove poter abitare. Soffrivano la fame e la sete, l’anima veniva meno in loro. Ma nella loro angoscia gridarono al SIGNORE ed egli li liberò dalle loro tribolazioni. Li condusse per la retta via, perché giungessero a una città da abitare”. In questa prima parte della nostra serie sul “GPS divino”, esploreremo la condizione di chi si...
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Salvatore

Salmo 107:4-5: Smarriti e ritrovati (1)

 Salmo 107:4-5: Smarriti e ritrovati (1)
Il GPS di Dio nel deserto della vita 
Immaginate una carovana smarrita e affamata nel buio del deserto, dove la disperazione opprime ogni cuore. Circondata solo da sabbia e da un’oscurità impenetrabile, la sua unica speranza di sopravvivenza risiede nel ritrovare la pista. 
La fame e la sete li consuma, l’anima si affievolisce e la paura impedisce persino di dormire. La notte si fa sempre più cupa e l’umidità penetra le tende, gelando i viaggiatori. 
Questa doveva essere la situazione dei viaggiatori descritti nel Salmo 107:4-7: 
“Essi vagavano nel deserto per vie desolate; non trovavano città dove poter abitare. Soffrivano la fame e la sete, l’anima veniva meno in loro. Ma nella loro angoscia gridarono al SIGNORE ed egli li liberò dalle loro tribolazioni. Li condusse per la retta via, perché giungessero a una città da abitare”.
In questa prima parte della nostra serie sul “GPS divino”, esploreremo la condizione di chi si sente smarrito nel deserto della vita. 
Il Salmo 107:4-5 ci rivela due verità fondamentali che approfondiremo oggi: il nostro smarrimento spirituale e la nostra profonda fame interiore. 
Nella prossima parte (vv.6-7), scopriremo come Dio risponde dopo al nostro grido d’aiuto e ci conduce fuori dal deserto.
Certamente è una situazione fisica, ma descrive anche uno smarrimento spirituale, sociale e interiore.
Il nostro è un tempo di deserti senza mappe e di anime senza bussole! 
Viviamo in un’epoca caratterizzata da un profondo senso di smarrimento.
Come scrisse il sociologo Zygmunt Bauman nel suo libro “Modernità liquida”: “La nostra è una società di individui che vivono nell’incertezza, nell’ansia e nella frustrazione prodotte dall'assenza di punti di riferimento solidi e duraturi”.
Guardiamoci intorno: vediamo persone che vagano nella vita senza una direzione chiara, relazioni frammentate, crisi d’identità, e una ricerca affannosa di significato che spesso porta a strade senza uscita. 
Come Dante all’inizio della Divina Commedia: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita” - questa selva oscura è oggi più fitta che mai!
Ma lo smarrimento non è un’esperienza nuova dell’umanità. È una condizione profondamente radicata nella storia umana, e la Scrittura ne parla con sorprendente attualità. 
Oggi esamineremo un passaggio che descrive con straordinaria precisione questo stato d’animo, e ci offre anche la via d’uscita.
Prima di immergerci nel testo, è importante comprendere il suo contesto. 
Il Salmo 107 è un salmo di ringraziamento post-esilico, composto probabilmente dopo il ritorno degli Israeliti dalla cattività babilonese (586-538 a.C.). 
Il Salmo si apre con l’invito: “Celebrate il Signore, perché egli è buono, perché la sua benignità dura in eterno!" (v. 1). 
Poi il salmista dipinge quattro potenti affreschi di crisi umana e liberazione divina: i perduti nel deserto (vv. 4-9), i prigionieri in catene (vv. 10-16), i malati vicini alla morte (vv. 17-22) e i marinai nella tempesta (vv. 23-32). 
Ogni sezione descrive il pericolo, riporta il grido a Dio, delinea la liberazione divina, esprime la gratitudine e si conclude con una parola di istruzione e ammonimento.
Il primo di questi (vv.4-9) descrive persone smarrite nel deserto che gridano a Dio e trovano liberazione. 
Questo quadro può essere letto sia letteralmente sia come metafora spirituale – persone letteralmente perse nel deserto, ma anche chiunque stia lottando attraverso il deserto della vita per raggiungere la città di Dio.
I versetti che esamineremo oggi (vv. 4-7) fanno parte della prima di queste quattro scene di difficoltà. 
Vediamo prima di tutto:
I PERSI NEL PERCORSO PERICOLOSO (v. 4) 
Nel v.4 leggiamo: “Essi vagavano nel deserto per vie desolate; non trovavano città dove poter abitare”. 
A chi si riferisce il salmista? Sono:
A) I riscattati da Dio 
“Essi” si riferisce alle persone che il Signore ha riscattato (v.2), sono coloro che Dio ha liberato dalla mano dell’avversario.
La descrizione dell’errare nel deserto richiama certamente l’esperienza dell’Esodo sotto Mosè, quando sperimentarono fame e sete (cfr. per esempio Esodo 16:3; 17:3), ma anche l’esperienza più recente dell’esilio a Babilonia. 
Il salmo sembra riflettere più direttamente sul ritorno da Babilonia, che è visto dai profeti come un secondo esodo e un ritorno dal deserto (cfr. per esempio Isaia 40:1–5; Osea 2:14–15) e il ritorno attraverso terre desolate verso Gerusalemme. 
Ma può essere anche la storia di esperienze di vita tipiche di individui, o gruppi che attraversavano i deserti, una potente immagine fisica che rappresenta anche una condizione spirituale.
La storia di questi riscattati è la nostra storia collettiva, è l’autobiografia dell’umanità scritta nelle lacrime dei perduti e di coloro che sono stati riscattati dal Signore. 
Siamo tutti viandanti in cerca della nostra vera casa, pellegrini tra la polvere delle nostre delusioni e la speranza del nostro destino eterno, ma non tutti trovano una casa.
“I riscattati dal Signore” è un’espressione particolarmente significativa perché richiama il linguaggio della redenzione legale e familiare nell’antico Israele.
Il “riscattatore” (go'el) era il parente prossimo che aveva il dovere di riscattare un membro della famiglia dalla schiavitù o dalla povertà. 
Il fatto che Dio stesso sia presentato come il “go'el” d’Israele indica la profondità del Suo impegno secondo il Patto che lo legava al Suo popolo (Esodo 6:6; 19:4-6; 24:7-8; Deuteronomio 27-30; Salmo 78:35; Isaia 41:4; 43:14; 44:6).
Possiamo quindi dire che “essi” sono coloro che hanno sperimentato personalmente il potere redentivo di Dio, che li ha liberati da situazioni disperate, riportandoli alla sicurezza e alla comunione.
“Essi” possono essere visti come rappresentanti di tutti coloro che si sono smarriti, ma che Dio ha ricondotto sulla “strada diritta” e verso “una città da abitare”.
Questo testo ci parla di ricerca, vediamo:
B) La ricerca disperata
“Vagavano” (tāʿû – qal perfetto attivo) indica un vagare senza meta, o senza una destinazione, essere disorientati, o persi (cfr. per esempio Genesi 21:14; 37:15; Esodo 23:4; Giobbe 38:41 Isaia 16:8).
Ma può avere anche la connotazione di “barcollare”, cioè il movimento non lineare di una persona il cui corpo è fuori controllo per qualche motivo come, per esempio, un ubriaco; infatti, questa parola è usata anche in questo senso nell’Antico Testamento (cfr. per esempio Isaia 28:7).
Attraversare il deserto non era un viaggio ordinato, come quando percorriamo una strada ben definita in un luogo abitato, ma un vagare avanti e indietro, lontano da ogni sentiero e strada in un labirinto senza fine di desolazione.
È come quando il nostro cuore barcolla tra mille direzioni, ubriaco di falsi miraggi. Anche la nostra società oggi vaga nel deserto dell’incertezza morale, barcollando come un ubriaco tra diverse verità soggettive, incapace di trovare la via retta perché ha perso i punti cardinali dell’anima. 
Abbiamo abbandonato “i sentieri antichi” di cui parlava Geremia: “Così dice il SIGNORE: ‘Fermatevi sulle vie e guardate, domandate quali siano i sentieri antichi, dove sia la buona strada, e incamminatevi per essa; voi troverete riposo alle anime vostre!” (Geremia 6:16).
Ma invece di seguire queste vie eterne tracciate dalla sapienza divina, preferiamo inoltrarci in sentieri che sembrano giusti ai nostri occhi, ma che alla fine conducono alla morte, dicendo come Israele ribelle: “Non ci incammineremo per essa!" (Geremia 6:16).
Il verbo “vagavano” indica un’azione volontaria e insieme al significato della parola Ebraica, indicherebbe comportamenti peccaminosi deliberati contro Dio.
Infatti, secondo il “Theological Dictionary of the Old Testament”, questa parola con questo verbo non si riferisce mai a un errore involontario; implica sempre una decisione consapevole contro le esigenze di Dio, si riferisce tipicamente a comportamenti peccaminosi deliberati (cfr. per esempio Proverbi 14:22; Ezechiele 14:11; 44:10).
È illuminante notare che lo stesso termine è usato in Isaia 53:6 dove si parla di una condizione spirituale di disorientamento e di ribellione: "Noi tutti eravamo smarriti come pecore, ognuno di noi seguiva la propria via; ma il SIGNORE ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”.
Questo versetto rivela una profonda verità: il nostro vagare non è solo fisico, ma spirituale; non è solo geografico, ma morale. 
Siamo come pecore che hanno abbandonato il pastore per seguire sentieri personali che ci portano alla rovina.
Viene specificato dove vagavano i riscattati (v.2): “nel deserto per vie desolate.” 
“Deserto” (midbar), non è solo semplicemente un luogo arido, ma un posto disabitato, pericoloso, privo di risorse. 
“Vie desolate” (derekh yeshimon), è “strada del deserto” o “cammino della desolazione”.
Indica una desolazione ancora più estrema del normale deserto, un luogo arido e inospitale, quasi apocalittico nella sua desolazione.
“Desolate” (Yeshimon) è una landa desolata e disabitata, inutile per la coltivazione (cfr. per esempio Numeri 21:20; 23:28; Deuteronomio 32:10; Salmo 68:7; 78:40; 106:14; Isaia 43:19-20).
“Il deserto ha un’influenza molto deprimente sull’uomo che è perso nella vastità sconfinata” (Raleigh).
Il deserto biblico non è solo l’assenza di acqua, ma l’assenza di comunità. Non è solo aridità, ma alienazione. 
È il luogo dove l’eco del nostro grido ritorna vuoto. È come il vuoto esistenziale che molti sperimentano oggi – un’aridità dell'anima che nessun benessere materiale può irrigare.
Ma il deserto non è mai stato concepito da Dio come una destinazione permanente, ma come spazio di transizione e trasformazione. 
VanGemeren osserva con profondità: “Il deserto è un luogo da attraversare, non in cui vagare senza meta. Non c’è alcuna città per la protezione, e le scorte di cibo e acqua possono facilmente esaurirsi. La vita perde il suo significato quando si sperimenta l’assenza di scopo.”
Questo aggiunge una dimensione cruciale alla nostra comprensione: il vagabondaggio senza scopo è contro la natura stessa del deserto, che dovrebbe essere un luogo di transizione verso una meta, non di perdizione permanente.
“A volte le persone che vagano non sanno quanto siano perdute. Quando se ne accorgono, spesso sono così lontane che nessun aiuto sembra possibile. Afflitte dall’inquietudine tipica dell’Occidente benestante, vagano da un matrimonio all’altro, da una dieta all’altra, da un percorso spirituale all’altro, da una droga all’altra. Per l’anima senza meta, frenetica di appetiti, nulla può soddisfare se non l’amore di Dio che dà fondamento e orientamento.” (J. Mary Luti).
Il deserto è un passaggio, non una destinazione!
La differenza tra “l’attraversare” e “vagare” è una questione di direzione e proposito:
Attraversare implica movimento verso una meta.
Vagare implica movimento senza direzione.
Quando perdiamo il senso di direzione, perdiamo anche il senso di vita.
Il deserto nella Bibbia è un laboratorio divino, una scuola di rivelazione e intimità con Dio (cfr. per esempio Esodo 3:1-2; Osea 2:14-15), di formazione e apprendimento (cfr. per esempio Deuteronomio 8:2-3; 32:10-11; Matteo 4:4), di dipendenza da Dio, dove Israele imparò a raccogliere la manna quotidiana, luogo di provvidenza divina (cfr. per esempio Esodo 16:4; 17:6; Salmo 78:19-20), di prova e preparazione spirituale (cfr. per esempio Matteo 4:1-2; Luca 1:80).
Oggi molti hanno trasformato le stagioni di prova in stati permanenti, hanno costruito tende dove dovevano esserci solo orme di passaggio. 
Le difficoltà non sono mai destinate a essere dimore, ma ponti verso qualcosa di più grande. 
Ecco una verità eterna: ciò che Dio permette come passaggio, noi spesso lo trasformiamo in prigione.
C) Il rifugio desiderato 
Ancora nel v.4 leggiamo:“Non trovavano città dove poter abitare”. 
Il non trovare una città da abitare si contrappone direttamente al v. 7, dove il Signore "li condusse per la retta via, perché giungessero a una città da abitare”.
“Città dove poter abitare” (ʿîr môšāb) è in enfasi, e si riferisce a un centro abitato, un’area urbana popolata dove abitare, cioè un luogo in cui vivere.
Rappresenta non solo un insediamento fisico, ma una comunità stabile, un luogo di appartenenza e sicurezza. 
“Abitare” (môšāb) viene dalla radice “sedersi, dimorare” nel senso di una dimora dove possono dimorare permanentemente (cfr. per esempio Genesi 21:20, 21; 22:19) contrapposto a vagare nel deserto.
Indica un luogo di appartenenza alla comunità, al riposo, alla stabilità, alla solidarietà e alla sicurezza (Esodo 12:20; Levitico 25:29; Salmo 107:36; Isaia Ezechiele 34:13) in contrapposizione all’elemento di instabilità, isolamento e pericolo del vagare nel deserto.
Allora quando il salmista descrive persone che “non trovavano città dove poter abitare”, stava parlando di un’assenza di pace, stabilità, sostegno e sicurezza che va ben oltre la semplice mancanza di un luogo fisico.
Il fatto che non riuscissero a trovare una città nonostante i loro sforzi sottolinea i limiti umani e la necessità dell'intervento divino.
Questa ricerca di una “città” è un tema ricorrente nella Bibbia, dalla chiamata di Abramo che “aspettava la città che ha le fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio” (Ebrei 11:10), fino alla Gerusalemme celeste dell’Apocalisse.
Ma cosa significa concretamente questo vagare alla ricerca di una dimora stabile? Vediamo la metafora:
(1) Il deserto dell’anima
Nel deserto, questi pellegrini vagavano smarriti come una carovana che ha perso la pista nell’immensità sconfinata del deserto. 
Quando perdiamo il senso di direzione, perdiamo anche il senso della vita.
Non è solo un luogo geografico che il salmista descrive, ma una condizione spirituale profonda. 
Il deserto nella Bibbia rappresenta spesso il vagabondaggio lontano da Dio, quello stato di perdizione interiore in cui ci si sente completamente disorientati (cfr. per esempio Salmo 63:1; Isaia 40:3; Osea 2:14-15; Ezechiele 20:35-36).
Come osservava Spurgeon con acuta sensibilità: “Si erano persi nel posto peggiore possibile, proprio come il peccatore che è perduto nel peccato; vagavano su e giù in vane ricerche e perquisizioni proprio come fa un peccatore quando è risvegliato e vede il suo stato di perdizione”.
Ciò che rende questa condizione particolarmente opprimente è che molte volte, è accompagnata dalla solitudine. 
In questa via desolata, l’assenza di vita umana non è solo un dettaglio del paesaggio, ma diventa un moltiplicatore della loro miseria. 
La desolazione esterna rispecchia e intensifica quella interiore, rendendo la disperazione ancora più profonda.
La solitudine del deserto esercita un’influenza deprimente sull’animo di chi si perde nella sua vastità sconfinata. 
Il viaggiatore segue inizialmente un sentiero sterile, ma quando abbandona anche quello, avventurandosi completamente al di fuori dei percorsi umani, la sua condizione diventa veramente miserabile. 
Un’anima priva di connessioni empatiche si trova ai confini dell’abisso più profondo: la via solitaria è davvero la via della disperazione.
Non c’è solo una solitudine fisica, ma anche esistenziale, un senso di disconnessione radicale non solo dagli altri, ma anche da sé stessi e da Dio. 
È quella condizione in cui l’essere umano si percepisce come irrilevante nell’immensità dell’universo, come un granello di sabbia sperduto tra miliardi di altri, senza direzione né scopo, o come mi disse una volta qualcuno: “Come un puntino nell’universo!”
Quando il salmista descrive questa condizione, tocca una delle esperienze umane più universali e dolorose. 
La solitudine può diventare un deserto interiore più arido di qualsiasi Sahara fisico. 
È la condizione dell’esilio spirituale in cui l’anima vaga senza trovare riposo, senza incontrare un volto amico, senza sentire una voce che la chiami per nome.
Nei nostri tempi iperconnessi, paradossalmente, questa solitudine si è intensificata e messa più in evidenza. 
Siamo circondati da contatti superficiali che non placano la sete di una vera comunione. 
La moltiplicazione delle interazioni digitali spesso accentua il senso di isolamento reale. 
Come disse Thomas Merton: “Nessun uomo è un’isola”. 
Eppure, molti vivono come se lo fossero, in un arcipelago di solitudini parallele ma incomunicanti!
Questo ci introduce al:
(2) Deserto contemporaneo 
Come il piccolo principe di Saint-Exupéry che vagava tra pianeti alla ricerca di un significato profondo, molti oggi si spostano da un’esperienza all’altra senza mai trovare vera dimora per l’anima.
Quanti oggi si sentono perduti in un pellegrinaggio precario! Vagano in un deserto esistenziale, senza punti di riferimento stabili, senza una comunità autentica.
Il postmodernismo ha dato infinite opzioni, ma ha eroso le certezze!
Come gli Israeliti senza meta nel deserto, molti oggi vagano tra ideologie, filosofie di vita e relazioni, cercando un luogo di appartenenza autentica.
Le “città” - in senso metaforico secondo questo versetto - che il mondo offre: successo, ricchezza, piacere, si rivelano spesso miraggi che svaniscono quando ci si avvicina.
Come il salmista descrive le persone che “vagavano nel deserto per vie desolate”, così anche noi oggi possiamo ritrovarci in vari tipi di deserti spirituali oggi.
Le “vie desolate” moderne sono le autostrade desertiche dell’individualismo senza punti di riferimento solidi e duraturi, sono le vie relativismo, dove, senza la bussola della Parola di Dio, si vaga da un’idea all’altra, da una verità soggettiva all’altra, insicuri ed erranti.
Le “vie desolate” moderne sono le vie del consumismo, dove il tentativo di soddisfare una sete spirituale con beni materiali ci lascia sempre più assetati.
E ancora, le “vie desolate” moderne sono le vie della disinformazione, dove, sommersi da notizie, opinioni e teorie contrastanti, abbiamo le “vertigini” e barcolliamo come se fossimo ubriachi non di vino, ma di falsi messaggi!
Nella nostra epoca, la spiritualità rischia di diventare un’altra merce da consumare, un’esperienza personale tra le tante, invece di una dimensione essenziale che dà senso all’intera esistenza.
Abbiamo moltiplicato le opzioni, ma paradossalmente abbiamo reso più difficile trovare un vero “luogo dove abitare”, quella “città dove abitare” che rappresenta stabilità, sicurezza e appartenenza.
Paul Tournier, il noto medico e psicoterapeuta svizzero, diversi anni fa, ha profondamente riflettuto sul significato psicologico e spirituale del “luogo” e della “città” nella vita umana. 
Nel suo approccio alla “medicina della persona”, Tournier sottolineava come l’essere umano abbia un bisogno fondamentale di appartenenza, di trovare il proprio posto nel mondo, il proprio “luogo”. 
Questa ricerca di un luogo di appartenenza risuona perfettamente con il desiderio Biblico di una “città da abitare”, dove la persona possa trovare non solo riparo fisico, ma anche significato, relazione e identità.
Zygmunt Bauman ha analizzato la condizione contemporanea di “liquidità”, dove l’assenza di luoghi stabili di appartenenza genera profonda insicurezza esistenziale.
In questo vagare senza meta, il Salmo ci porta al versetto successivo che descrive una conseguenza inevitabile dello smarrimento:
II LA PRIVAZIONE PROFONDA (v. 5) 
Nel v. 5 è scritto: “Soffrivano la fame e la sete, l’anima veniva meno in loro”.
Immaginate questa scena: persone che vagano nel deserto arido, bocche secche, stomaci vuoti. 
Ma attenzione! Nella Bibbia, fame e sete non sono mai semplici bisogni fisici - sono metafore potenti di desideri spirituali profondi.
Ascoltate il lamento del salmista nel Salmo 42:2: “L’anima mia è assetata di Dio, del Dio vivente; quando verrò e comparirò in presenza di Dio?”. 
Così anche Gesù dice: “Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia” (Matteo 5:6).
La parola “anima” (nep̱eš), è ricca di significato. In Ebraico non indica solo l’anima spirituale, ma anche la totalità della persona: un essere vivente (cfr. per esempio Genesi 2:7; Esodo 16:16); la vita stessa (cfr. per esempio Deuteronomio 12:23; 1 Samuele 19:11); il principio vitale che include corpo, mente e spirito (cfr. per esempio Genesi 35:18; Levitico 17:10-11). 
Il soffio di vita (cfr. per esempio Genesi 2:7; Giobbe 11:20), l’essenza stessa dell’essere che comprende pensieri, emozioni, volontà e desideri (cfr. per esempio Genesi 34:3; Salmo 13:3; Deuteronomio 21:14).
Nel contesto di questo salmo, l’anima è la persona nella sua interezza – corpo, spirito, emozioni – tutto ciò che era in una grave crisi.
Un esempio chiaro lo troviamo in Numeri 21:4, dove si dice che “l’anima” (nep̱eš) del popolo si scoraggiò durante il viaggio. 
Ci troviamo allora in un abbattimento che coinvolge tutta la persona: stanchezza fisica, scoraggiamento mentale e crisi di fiducia, cioè si trovavano in uno stato di totale prostrazione fisica, emotiva e spirituale, avevano perso ogni speranza.
Infatti, il testo dice: “Veniva meno in loro”, letteralmente è “in loro venir meno” (bāhem titʿaṭṭāp - hitpael imperfetto medio) come una candela accesa che si spegne lentamente, descrive un processo graduale di esaurimento che coinvolge l’intera persona. 
La persona nella sua totalità stava progressivamente collassando per la fame e la sete.
“Veniva meno” (titʿaṭṭāp), è essere debole, essere o diventare privo di forza o vigore. È l’esperienza di sentirsi sfiniti, privi di energia vitale.
La stessa parola è usata in Lamentazioni 2:12 in tempo di guerra, durante l’assedio di Gerusalemme dove i bambini chiedevano alle loro madri dove fosse il mangiare, ed è scritto: “Venivano meno come feriti a morte nelle piazze della città, ed esalavano l'ultimo respiro sul seno delle loro madri”.
E ancora Giona ricordando l’esperienza di quando era dentro il ventre del pesce diceva: “Quando la vita veniva meno in me, io mi sono ricordato del SIGNORE e la mia preghiera è giunta fino a te, nel tuo tempio santo (Giona 2:8).
Allora “Soffrivano la fame e la sete, l’anima veniva meno in loro”, descrive una condizione di deterioramento totale, non solo una fame fisica, ma è anche una fame che consuma l’anima stessa. 
È l’esperienza di chi ha esaurito tutte le risorse, di chi ha raggiunto il limite delle proprie forze e quindi il desiderio di trovare una città dove essere salvati dalla morte certa.
Hossfeld F.-L. & Zenger E. scrivono: “In primo luogo, nei vv. 4-5, il testo parla di persone che vagano nel deserto e nei luoghi desolati, una regione senza sentieri, senza acqua, inabitabile dove non c’è nutrimento – quindi un luogo di morte – e le cui energie sono finite a causa della fame e della sete, ma anche a causa della perdita dell’orientamento e dello svanire della speranza di raggiungere un insediamento abitato e quindi di essere salvati dalla minaccia di morte per fame e sete”.
Ora questa fame e sete nel deserto non sono semplicemente bisogni fisici insoddisfatti; rappresentano una privazione esistenziale profonda che tocca l’essenza stessa della persona. 
Quando non troviamo quella “città da abitare”, quando il nostro vagare continua senza trovare riposo, sperimentiamo una fame che nessun cibo terreno può saziare, una sete che nessuna bevanda mondana può dissetare.
Viviamo in un’epoca di privazione profonda che deprime le nostre anime. Nonostante l’abbondanza materiale della società occidentale, c’è una fame e una sete più profonde che rimangono insoddisfatte. 
Abbiamo piatti pieni, ma anime vuote!
Come canta Bono degli U2 in “I Still Haven’t Found What I’m Looking For”: “Ho scalato la più alta montagna... Ho corso... Ma non ho ancora trovato ciò che cerco”. 
Questa canzone esprime l’esperienza di una ricerca profonda, assetata, nel deserto dell’esistenza. L’anima sa che c’è di più. Il vuoto è un segnale, non una condanna.
Questo vuoto lo può riempire solo il Signore, Colui che ci ha creati.
Come disse Agostino: “Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”.
L’aumento di depressione, ansia e dipendenze testimonia questa fame spirituale insoddisfatta. 
La sensazione che “la vita viene meno” è comune tra giovani e anziani, nonostante tutti i comfort moderni.
Il profeta Geremia descrive perfettamente questa condizione quando dice: “Il mio popolo infatti ha commesso due mali: ha abbandonato me, la sorgente d'acqua viva, e si è scavato delle cisterne, delle cisterne screpolate, che non tengono l’acqua” (Geremia 2:13). 
Nelle “Cronache di Narnia” di C.S. Lewis, il topo Reepicheep naviga verso il confine dell’est, alla ricerca della “terra del Leone”. “Vado nella terra di Aslan... dove il mio cuore ha sempre desiderato andare”, dice con determinazione. 
Il cuore umano ha sete di un’altra patria, quella vera. Le nostre cisterne screpolate non possono mai soddisfare ciò che solo la sorgente d’acqua viva può dare.
Le nostre “cisterne screpolate” oggi sono il materialismo, il consumismo, l’individualismo estremo, la ricerca ossessiva del successo personale che ci lasciano un vuoto interiore!
Spurgeon commenta: “Tale è la condizione di una coscienza risvegliata prima che conosca il Signore Gesù; è piena di desideri insoddisfatti, bisogni dolorosi e paure pesanti”.
E quando le nostre risorse si esauriscono - fisicamente, emotivamente, spiritualmente - la disperazione cresce come un’ombra. 
La vita stessa perde colore e significato. 
Proprio quando il deserto sembra non avere fine, quando il miraggio della prossima oasi si rivela ancora una volta illusorio, sorge la domanda fondamentale: esiste davvero una città dove abitare, un rifugio autentico per l’anima inquieta? È possibile trovare una dimora vera in questo pellegrinaggio incerto?
Ecco la buona notizia che ci dona speranza: Dio non solo si limita a trovare una via attraverso il deserto, crea una via diretta verso la città.
Nel punto più buio della nostra disperazione, la salvezza di Dio è più vicina che mai.
CONCLUSIONE 
La storia di questo salmo è la nostra storia, la storia di tutti noi.
Racconta non solo il viaggio d’Israele attraverso il deserto, o il ritorno dall’esilio, o il viaggio di una carovana nel deserto, ma il viaggio di ogni anima dalla disconnessione all’appartenenza, dalla frammentazione all’integrazione, dalla desolazione alla dimora, dalla separazione da Dio alla riconciliazione con Lui.
Il nostro deserto può essere diverso – può essere fatto di pixel e notifiche, schermi luminosi, social media, applicazioni, messaggi istantanei, che reclamano attenzione, che si susseguono automaticamente, che vibrano in tasca, invece che di sabbia – ma la nostra necessità di una guida divina rimane la stessa. Siamo tutti smarriti finché non siamo trovati. Tutti vagabondi finché non troviamo la via di casa.
In un’epoca in cui tutti cercano di essere navigatori, Dio ci invita a essere navigati, a lasciarci, cioè, guidare da Lui. 
In un’era in cui tutti vogliono fare la propria strada, Dio ci ricorda che la via è già stata tracciata, e che la nostra libertà più profonda sta nel camminare su di essa. 
Il coraggio più grande non è tracciare la propria via, ma riconoscere quella giusta e avere l'umiltà di seguirla.
Il salmo ci invita a vedere la nostra storia personale e collettiva come la grande narrazione della salvezza del Signore. 
Ci ricorda che il Dio che ha guidato quei riscattati nel deserto fino alla città d’abitare è lo stesso Dio che oggi ci conduce dal nostro smarrimento spirituale a una relazione restaurata con Lui e con gli altri attraverso Gesù Cristo: la via, la verità e la vita (Giovanni 14:6); la manna nel nostro deserto spirituale (Giovanni 6:35), l’acqua viva che disseta la nostra anima assetata (Giovanni 4:14), la luce che illumina il nostro cammino nelle tenebre (Giovanni 8:12). 
Attraverso la sua morte e risurrezione, Gesù ha aperto per noi la strada verso quella “città che ha le vere fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio” (Ebrei 11:10). 
Come possiamo allora permettere a Dio di guidarti fuori dal tuo deserto personale? Ti suggerisco tre passi pratici: 
1) Riconosci il tuo smarrimento
Come il figlio prodigo, il primo passo è ammettere: “Mi sono perso”. 
Questa è l’umiltà che apre la porta alla grazia divina (cfr. per esempio Giacomo 4:6).
2) Grida al Signore
La preghiera non deve essere l’ultima risorsa, ma la prima!
Non dobbiamo aspettarci a perderci, prima di gridare a Dio, se poi avviene, Dio va cercato per primo!
3) Segui la luce della Parola (cfr. per esempio Salmo 119:105).
Impegnati quotidianamente con la Bibbia come la tua bussola spirituale.
Nella prossima parte di questa serie, esploreremo i vv.6-7 per scoprire come Dio risponde specificamente al grido del cuore smarrito, e come ci conduce attraverso la “via diritta” verso la nostra vera dimora.




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Dai frutti si riconosce l’albero (Matteo 7:16-20). Dai frutti si riconoscono i falsi profeti. Come fai a sapere se qualcuno è un falso profeta? C'è un modo per identificarlo? La risposta è "sì".  Il modo con il quale possiamo discernere un falso profeta, e quindi anche un falso credente è dai suoi frutti.  Infatti, anche se questo paragrafo è dedicato principalmente agli avvertimenti circa i falsi profeti, è anche una prova per tutti i veri credenti! Gesù al v. 15 esorta il suo uditorio, e quindi anche noi a guardarsi dai falsi profeti i quali vengono in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Ora ci dice che i falsi profeti si riconosceranno dai loro frutti. Noi vediamo tre aspetti riguardo i frutti: i frutti sono secondo la specie di albero, dimostrano la qualità dell’albero, segnano il destino dell’albero.

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Matteo 6:34: A ogni giorno il suo affanno. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di sé stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno. Gesù conclude il suo discorso sulle preoccupazioni per i bisogni primari riguardo il futuro, dice di non essere ansiosi. Dio si prenderà cura di noi perché fa così con gli uccelli e i campi, non preoccupiamoci del futuro perché il domani si preoccuperà di se stesso, basta a ciascun giorno il suo affanno, cioè viviamo un giorno alla volta con i suoi problemi o difficoltà quotidiani. Molte preoccupazioni riguardano il futuro per paure inesistenti, altre sono reali per problemi economici presenti, ma affrontiamo il presente con la certezza che Dio fin qui ci ha soccorsi (1 Samuele 7:12). Dio non abbandona i suoi figli, li ama e li cura teneramente.

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La parabola della stoffa nuova e degli otri nuovi (Luca 5:33-39). Qualcuno ha detto: “Tutti sono a favore del progresso. È il cambiamento che non piace”. Questa frase ci fa capire come a moltissime persone non piacciono i cambiamenti, le novità. Tempo fa il Duca di Cambridge, avrebbe affermato: "Qualsiasi cambiamento in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo deve essere deplorato". Questo era anche il problema di molte persone ai tempi di Gesù. Gesù portò qualcosa di nuovo, inconciliabile con certe tradizioni locali, ma molte persone rifiutarono il Suo insegnamento. Continuiamo la nostra serie di predicazioni sulle parabole di Gesù. In questa parabola vediamo la causa, cioè perché Gesù l’ha detto, vediamo il cuore, e poi faremo delle considerazioni finali.